Debolezza
Le parole e le cose
de-bo-léz-za
Significato Carattere di chi o ciò che non ha forza, energie, solidità, o è in difetto, fragile, irresoluto, o indulge in comportamenti erronei
Etimologia da debole, dal latinio débilis ‘debole, malfermo’.
- «La mia debolezza è la sincerità.»
Parola pubblicata il 19 Dicembre 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Stanchezza (ho la febbre e mi sento debole); carenza o difetto (lo studio evidenzia palesi debolezze strutturali; le debolezze umane sono innumerevoli); fragilità (questo governo di minoranza è molto debole); irresolutezza (disprezzava la sua debolezza di carattere); vizio (fumare è la mia debolezza): non sembra proprio esserci spazio per una considerazione positiva della debolezza. Se si parla di pensiero, poi, ancora meno: la ‘debolezza di mente’ – qualunque cosa significhi – non è certo ritenuta una virtù. Perciò è davvero sorprendente che nella casa del pensiero, la filosofia, qualcuno rivendichi a sé l’attributo della debolezza e definisca la propria speculazione pensiero debole, sfidando le prevedibili ironie dei pensatori rivali. Eppure un drappello di filosofi, guidati dal recentemente scomparso Gianni Vattimo (1936-2023), non si è in alcun modo peritato di farlo.
Ora, è da subito evidente come la chiave di una simile postura intellettuale stia nell’opposizione ad un pensiero forte, e questo colloca chiaramente la riflessione di Vattimo e compagni nell’ambito del postmoderno: il ‘pensiero forte’ infatti è quello della tradizione, del mainstream della storia filosofica occidentale, imperniato sulla fiducia nella possibilità, per la ragione umana, di cogliere il vero Essere – di farsi «specchio della natura», per dirla con Rorty: come se disponessimo di un «occhio di Dio» sul mondo, di un accesso privilegiato all’essenza delle cose. In contrasto con questa visione, i teorici del pensiero debole recuperano la lezione nietzscheana per cui noi non abbiamo «nessun organo per la ‘verità’» e adottano l’approccio dell’ermeneutica, che vede gli umani come esseri finiti, situati in determinate prospettive, paradigmi, tradizioni, orizzonti linguistici e culturali.
La ‘forza’ che il pensiero metafisico si è sempre attribuita, invece, deriva dall’idea di un fondamento eterno e assoluto del reale e del conoscere. Ma la morte di Dio annunciata da Nietzsche, secondo Vattimo, è anzitutto «la fine della struttura stabile dell’essere». La debolezza del pensiero, cioè, è speculare a quella della realtà: una realtà non monolitica bensì molteplice, frammentata, fluida. Cosa tanto più evidente nella società della comunicazione generalizzata ed istantanea, in cui l’abbondanza di informazioni, lungi dal generare maggiore trasparenza, ha l’effetto opposto: «le immagini del mondo (…) costituiscono l’obiettività stessa del mondo», portando ad una «fabulazione» della realtà, per cui il ‘mondo vero’ – come ha scritto Nietzsche – diventa favola. Per comprendere un tale mondo, serve un pensiero che rinunci alle sue pretese di forza, «un pensiero capace di articolarsi (…) nella mezza luce», che concepisca la verità solo come dialogo tra testi e contesti diversi, nella consapevolezza dell’esistenza di molteplici giochi linguistici, ognuno con le proprie regole.
Gianni Vattimo, in una foto del 2015 del Ministero della Cultura argentino, si mostra tanto postmoderno da essere a colori.
Attenzione, però: pensiero debole non vuol dire pensiero rinunciatario: non si tratta di abdicare alla comprensione razionale, di naufragare in un relativismo nichilistico che paralizza la mente e l’azione. La perdita del fondamento, secondo Vattimo, va vista come un’opportunità, non come un limite; anzi, è proprio il pensiero forte, quello fondazionale, che a ben vedere è un ostacolo razionale ed esistenziale: «Il prezzo pagato dalla ragione ‘potente’ è un’impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare». Un mondo e un pensiero deboli – fluidi, frammentari, caotici, esposti al caso e aperti alla possibilità – custodiscono invece un prezioso potenziale di emancipazione, giacché si tratta di un «mondo di culture plurali», senza paradigma unico, dove proliferano le prospettive e in cui le differenze non sono più sistematicamente ignorate o schiacciate: «se con la moltiplicazione delle immagini del mondo perdiamo il ‘senso della realtà’, come si dice, forse non è poi una gran perdita».
Tuttavia, è innegabile che vivere in una tale deprivazione di certezze e fondamenti non sia facile né rassicurante. Da una parte, appare evidente che «le strutture forti della metafisica (…) erano solo le forme di rassicurazione del pensiero in epoche in cui la tecnica e l’organizzazione sociale non ci avevano ancora resi capaci, come accade oggi, di vivere in un orizzonte più aperto, meno ‘magicamente’ garantito». Dall’altra, è inevitabile che molti percepiscano questa condizione eminentemente postmoderna – che tendiamo ad associare al ‘mondo globalizzato’ – come minaccia esistenziale, con tutte le conseguenze psicologiche, politiche e sociali che ne derivano. Non per nulla, Nietzsche aveva già chiarito che gli ‘oltreuomini’ sono coloro che sanno sopportare un grado maggiore di incertezza, che «non hanno bisogno di articoli di fede estremi». E davvero pare roba da superuomini vivere, eternamente spaesati, in un mondo senza identità, direzione e fondamento.
Ma così le cose appaiono sotto tutt’altra luce – anzi, la prospettiva si capovolge affatto: tra pensiero forte e pensiero debole, dov’è ora la forza, dove la debolezza? L’abbiamo già capito, ma in chiusura andiamo a sbirciare un po’ in un’altra tradizione di pensiero e tuffiamoci nel Tao Te Ching, dove si legge che «durezza e forza sono compagne della morte, mollezza e debolezza sono compagne della vita», e «l’albero che è forte viene abbattuto».