Ontologia
Le parole e le cose
on-to-lo-gì-a
Significato Parte della filosofia che studia l’essere in quanto essere, indipendentemente dalle sue manifestazioni particolari
Etimologia dal latino moderno ontologia, composto del greco ón ‘ente, che è’, e -logia ‘studio’.
Parola pubblicata il 26 Ottobre 2021
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Che parolone, ontologia: uno di quei termini filosofici che intimoriscono a prima vista. Eppure, in teoria avrebbe un significato semplice: discorso, trattazione, studio (dal greco lógos) sull’essere, su ciò che è (in greco ón, óntos è il participio presente di eimí, ‘io sono’). Già, ma cosa sarebbe mai questa strana forma verbale sostantivata, l’essere? Nel linguaggio quotidiano, di solito la usiamo per indicare enti determinati, numerabili (in fondo al mare vivono strani esseri; sei un essere speciale). Ma nell’ontologia non si tratta degli esseri, bensì dell‘essere; non delle cose fatte così o così, con le loro varie e mutevoli determinazioni, ma delle cose in quanto, semplicemente, sono — dell’essere in quanto essere.
Si dirà: e c’è bisogno di una disciplina apposita per questo? Sì, se si presuppone un dislivello tra fisica e metafisica, ossia tra la realtà molteplice e variabile attestata dai sensi e la sostanza vera, essenziale, colta solo dall’intelletto. Se invece ritengo che non ci sia nulla al di fuori dell’esperienza sensibile, o che quandanche esistesse sarebbe inconoscibile, non mi serve alcuna ontologia. Ai filosofi ionici, che pur cercavano un principio fondante e unificatore del cosmo, non appariva troppo problematico il coesistere di tale principio e delle molteplici cose sensibili che derivano da esso. Poi arriva Parmenide di Elea — non a caso considerato il fondatore dell’ontologia — e afferma che l’essere è, mentre il non essere non è.
Tutti noi, a scuola, abbiamo pensato: “bella scoperta!”. Quella di Parmenide però non era una tautologia: era un rifiuto della contraddittorietà dei sensi, che mettendoci sotto gli occhi cose che ora sono, ora non sono più, ci testimoniano continuamente la molteplicità, il cambiamento, la contraddizione. Ma il vero essere — colto solo dalla ragione — non può cambiare, altrimenti non sarebbe più ciò che era, mischiandosi al non essere: bisogna quindi che sia uno, eterno, immobile e immutabile; ciò che non ha queste caratteristiche non esiste, è pura apparenza. Il pensiero non può neppure pensare il non essere, né il linguaggio esprimerlo: se penso (e dico) qualcosa, quella cosa deve esistere.
L’identità di essere, pensiero e linguaggio, peraltro, non era certo idea esclusiva di Parmenide, condivisa com’era da filosofi tanto precedenti quanto successivi; tra essi Platone, che però osserverà come il non essere, in realtà, sia perfettamente concepibile, in quanto diverso: una cosa può benissimo, allo stesso tempo, essere (sé stessa) e non essere (ciò che è altro da sé). Parmenide, semplicemente, non distingueva tra il senso predicativo di ‘essere’ (mio cugino è simpatico; Alberto è avvocato) e quello esistenziale (penso, dunque sono; e la luce fu).
Insomma: anche ammettendo l’esistenza dei fenomeni, di ciò che appare ai sensi — magari in quanto copia sbiadita e imperfetta delle idee, come riteneva Platone — resta la fiducia nella possibilità di conoscere il ‘vero essere’ mediante la ragione, perché l’essenza della realtà e il pensiero che la coglie sono fatti della stessa sostanza. Questa fiducia subirà un colpo definitivo con Kant, per il quale gli esseri umani possono conoscere solo ciò che è ‘filtrato’ dalle forme, dalle strutture dell’intelletto: della realtà vera, delle cose in sé, non possiamo sapere nulla. Fine dell’ontologia.
Quindi, oggi l’ontologia è un concetto inservibile? Ma no: in barba a Kant, possiamo continuare (o iniziare) a servircene con profitto e soddisfazione — ad esempio dicendo che io e te siamo ontologicamente affini, o che non andiamo d’accordo perché abbiamo ontologie incompatibili, o infine che, se sono gentile con le persone, non è perché oggi ho digerito bene; è proprio la mia condizione ontologica. Certo, potremmo dire anche ‘essenziale’, ‘essenzialmente’, ‘modo d’essere’, ‘visione’… ma non vi paiono sciapi, al confronto?