Realismo
Le parole e le cose
re-a-lì-smo
Significato Nome di diverse dottrine filosofiche; atteggiamento di valutazione oggettiva delle circostanze; movimento artistico ispirato a una fedele rappresentazione della realtà
Etimologia da reale, derivato del latino res ‘cosa’.
- «Quanto sei pessimista!» «No, sono realista: sei tu che ti illudi.»
Parola pubblicata il 16 Gennaio 2024
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Secondo un noto adagio, la vittoria ha cento padri, mentre la sconfitta è orfana. Lo stesso accade col realismo: se significa obiettività, sguardo lucido sulle cose opposto ad astrattezza e illusioni, ognuno vorrà avocarselo. Con quel reale generatore del realismo, tutti ritengono di avere una gran confidenza, ma basta un’occhiata alle sue vicissitudini filosofiche a mostrare quanto il realismo sia una questione di prospettiva. In epoca moderna, con esso s’intende – in contrasto coll’idealismo, secondo cui la realtà è spirito, pensiero – la convinzione che le cose esistano indipendentemente dal soggetto conoscente. Nella filosofia scolastica medievale, invece, era detto ‘realista’ chi attribuiva realtà oggettiva, e non solo mentale, ai concetti universali: il realismo, insomma, consisteva nel ritenere reali le cose astratte!
Rifugiamoci nell’arte per chiarirci le idee. Qui non c’è dubbio su cosa sia il realismo: la rappresentazione oggettiva, nuda e cruda, della realtà individuale e sociale, dominante nella letteratura europea del secondo Ottocento coi nomi di ‘naturalismo’ e ‘verismo’. Poi nel Novecento, oltre al neorealismo, c’è stato anche il realismo socialista. E qui le acque s’intorbidano nuovamente: l’arte promossa dai regimi del ‘socialismo reale’ sovietico ed esteuropeo era sì imperniata sulla rappresentazione realistica della vita quotidiana e del lavoro – escludendo ogni astrattismo, simbolismo e avanguardismo in genere –, ma anche profondamente ideologica e propagandistica. Fu come suo ironico contraltare che, nel 1963, alcuni artisti tedeschi chiamarono Realismo capitalista il loro movimento, che usava prodotti commerciali e immagini pubblicitarie per stigmatizzare la società dei consumi occidentale, con un intento più marcatamente politico rispetto alla Pop Art.
Ad usare l’espressione in senso decisamente più ampio e filosofico è stato il pensatore britannico Mark Fisher (1968-2017), che definisce il realismo capitalista l’«atmosfera pervasiva» del nostro tempo, in cui «è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo», tanto da convincere quasi tutti che – come disse Margaret Thatcher – «non c’è alternativa». Per Fisher il realismo capitalista non coincide col postmoderno, pur facendone chiaramente parte: laddove questo implica un rapporto dialettico col moderno e un suo conseguente superamento, il realismo capitalista liquida le idee della modernità, dà per scontata l’assenza di alternative al presente e paralizza il realizzarsi di prospettive future – potenzialità soltanto immaginate e rimpiante (i cosiddetti ‘futuri perduti’). Il capitalismo «occupa tutti gli orizzonti del pensabile» e «ha colonizzato i sogni della popolazione», instaurando «una ‘ontologia del business’ in cui è semplicemente ovvio che tutto nella società, incluse la sanità e l’istruzione, debba essere gestito come un’azienda».
Ma ci sono diverse crepe nel sistema, che mostrano come questo presunto realismo, per diversi aspetti, sia in conflitto con la realtà vera: anzitutto quella della catastrofe ecologica incombente, che mette a nudo la follia di un’idea di produzione e consumo infiniti: «il capitalismo è per sua intima natura opposto a qualunque nozione di sostenibilità». Poi la salute mentale: se la depressione è tra le patologie più trattate dal servizio sanitario nazionale in diversi Paesi, secondo Fisher, è perché «il capitalismo è intrinsecamente disfunzionale». Perciò dovremmo politicizzare il disagio psichico, smettendo di considerarlo un fatto naturale e privato.
Un’altra grande crepa nell’edificio del realismo capitalista è la burocrazia. Nell’opinione comune, essa sarebbe una peculiarità dello statalismo comunista, mentre nelle dinamiche economie neoliberali i lavoratori sono incoraggiati ad essere autonomi, flessibili e ‘smart’. Quest’immagine, però, si scontra con una realtà fatta di rigide procedure di rendicontazione di ogni aspetto del lavoro, in nome dell’efficienza e della produttività, con i dipendenti costretti ad applicare direttive e normative calate dall’alto che sembrano vivere di vita propria, risultandone tanto più implacabili e resistenti ad ogni correzione o critica. Alla fine, come profetizzato da Kafka, «i lavoratori diventano ispettori di sé stessi, costretti a valutare le proprie prestazioni».
Ma l’incongruenza maggiore – che spinge a chiedersi quale rapporto ci sia tra questo strano ‘realismo’ e la realtà – è che tutta questa mole di dati appare fine a sé stessa: al sistema sembra interessare, più che la realtà, semplicemente la sua immagine. Lo sforzo maggiore non è profuso per migliorare la qualità dei prodotti e dei servizi, ma solo la loro rappresentazione: numeri, ‘target’, ‘tassi di successo’ non sono più un mezzo per misurare la qualità, ma diventano un fine in sé – capita, quindi, che tre interventi di routine, anche superflui, siano preferibili ad uno urgente.
L’ultimo smascheramento avviene nella cultura, dove emerge l’intima coincidenza di realismo socialista e capitalista come ideologia, propaganda. Il realismo capitalista è pienamente postmoderno nel distanziamento ironico-cinico dal mondo. Ma quest’epoca della disillusione, che si vanta di aver chiuso con le ingenuità sentimentali del passato e idolatra, nei suoi prodotti culturali, l’accettazione della realtà così com’è – l’onnipresente resilienza, la capacità di cavarsela da ‘duri’ in un mondo ostile –, riflette perfettamente la parabola di un realismo che finisce per rivelarsi «una sorta di mito anti-mitico».